Articolo scritto per CulturArte
La bellezza è un’idea che è sempre esistita e che si è sempre portata con sé due paradossali assiomi: il fatto che essa sia soggettiva e il fatto che sia possibile asserire, in maniera oggettiva, che una persona possa essere più bella di un’altra.
Il primo caso di elezione per la donna più bella, o
semplicemente il primo di cui ho memoria, è rappresentato dall’evento
mitologico sul giudizio di Paride.
E tu guarda un po’, tale frivola gara ebbe come conseguenza
una guerra.
Tutto ebbe inizio per colpa di Eris, dea della discordia la
quale, non essendo stata invitata al banchetto che Zeus aveva disposto per il
matrimonio di Peleo e Teti, scagliò sulla tavola imbandita una mela d’oro
destinata alla più bella. Ben tre dee
pretesero quello che è passato alla storia come pomo della discordia: Era, Atena e Afrodite. Pronte a pagare qualsiasi prezzo e a
mantenere qualsiasi genere di promessa prima, pronte ad inviare ogni sorta di
punizione poi qualora non avessero vinto il titolo di più bella fra le dee.
Gli anni passano, il mito diventa storia e nascono i primi
concorsi di bellezza come li conosciamo noi oggi. Ad anticipare il concorso di
Miss Italia, che vede ufficialmente la vita per la prima volta nel 1946, è Miss
America, nata nel 1921, che offre borse di studio come premio per la prima
classificata.
Come era possibile che in un secolo così travagliato per la
vita delle donne che ancora soffrivano della mancanza di diritti politici,
sociali, morali e che vedevano la loro libertà ancora repressa qualcuno avesse
pensato di crear loro dei concorsi di bellezza?
Con slogan che denunciano lo sfruttamento dell’immagine
femminile voluta dai maschi, il 7
settembre del 1968 ad Atlantic City viene contestato il concorso annuale
statunitense da un gruppo di giovani
attiviste conosciuto come New York
Radical Women, fra cui Robin Morgan.
La marcia, che passerà alla storia con il nome di Miss America Protest, vide sfilare
circa 400 donne che, a poco a poco, buttavano in un bidone detto Freedom Trash Can gli “strumenti di tortura
femminile” come pentole, moci, stracci, bigodini, ciglia finte, tacchi alti,
guaine, corsetti e reggiseni. Leggenda vuole, sebbene l’evento non sia mai
accaduto poiché dichiarato pericoloso dalla polizia, che il contenuto di tali
bidoni sia stato bruciato a causa di un articolo pubblicato in un giornale
locale. Un gesto del genere designava un’analogia fra la protesta femminista e
i manifestanti contro la guerra del Vietnam, iniziata ormai più di dieci anni
prima, che bruciavano le loro carte da disegno. Il parallelismo piacque ad
alcune attiviste tanto che nel decennio successivo si potrà parlare di mitizzazione del bra- burning, non solo nei cortei ma anche nei college. Questo non
fu l’unico punto che accomuna la protesta femminista e quella del Vietnam. Nel
corso dell’anno precedente, infatti, la vincitrice del titolo fu spedita con la troupe per la prima volta
in Vietnam, sancendo così la militarizzazione della gara. Il viaggio
fu giustificato per lo scopo da raggiungere _ l’intrattenimento dei soldati ed
il sostegno alle truppe_ ma il vero fine agli occhi delle femministe furono
i discorsi di incoraggiamento ai figli, ai padri, ai mariti e ai fidanzati
per fare in modo che potessero morire e uccidere con uno spirito meno
negativo. Non vi è bisogno alcuno di
spiegare, invece, come l’immagine della reginetta di bellezza americana sarebbe
stato utilizzato, subito dopo la vittoria, come sponsor di prodotti della
stessa natura di quelli buttati nei Freedom Trash Can.
Numerosi gli opuscoli scritti e distribuiti in cui venivano
messi nero su bianco concetti che già da troppo tempo erano evidenti nella
società, non soltanto statunitense. Il fatto che i maschi, fin dalla più
giovane età, fossero spinti a compiere azioni, mentre le femmine fossero limitate
a vivere nel mondo delle apparenze è lampante tanto quanto deplorevole: ogni
ragazzo poteva aspirare a diventare Presidente degli Stati Uniti, ogni ragazza
a vincere Miss America, come se le due cariche fossero di pari valore.
Le dimostranti si erano
schierati contro il concorso per le ragioni più disparate. Dai criteri di
valutazione di standard impossibili da raggiungere per vincere il titolo, al
fatto che nessuna fra le prime classificate fosse appartenente ad un’etnia
diversa da quella caucasica, per non parlare del fatto che tale rassegna non faceva
altro che acuire quella che la Morgan definì “ l’imbattibile combinazione
Madonna- Puttana” che tanto aveva fruttato a riviste come Playboy riassumibile
nell’idea di bellezza innocente e allo stesso tempo abbastanza seducente da
poter soddisfare la loro lussuria.
Per ogni determinato
problema i manifestanti trovarono una soluzione: dall’elezione di un concorso
parallelo chiamato Miss Black America da parte di coloro che manifestavano contro
il razzismo del concorso, all’elezione di una pecora come Miss America da parte
di chi si schierava deliberatamente contro il concetto all’origine della rassegna,
l’idea base che spinge tale spettacolo ad esistere, paragonando l’evento ad
un’asta di bestiame.
Perché affannarsi tanto, quindi, per essere belle? Perché
premiare la bellezza esteriore, effimera e priva di sostanza, con borse di
studio utili e desiderabili da chiunque, base sicura per una vita tranquilla?
Meno famosa delle sorelle, Anne Brontë ci tramanda la sua
idea sulla bellezza, adesso sta ad ognuno di noi riflettere sulla sua
importanza.
È stupido desiderare
la bellezza. Le persone di buon senso non la desiderano mai per se stesse o si
curano che vi sia negli altri. Se la mente sarà ben coltivata, e il cuore ben
disposto, nessuno si interesserà mai dell’aspetto esteriore.
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