venerdì 7 settembre 2018

Di quando abbiamo buttato mele d'oro in un bidone. Cinquanta anni dalla Miss America Protest


Articolo scritto per CulturArte


La bellezza è un’idea che è sempre esistita e che si è sempre portata con sé due paradossali assiomi: il fatto che essa sia soggettiva e il fatto che sia possibile asserire, in maniera oggettiva, che una persona possa essere più bella di un’altra.

Il primo caso di elezione per la donna più bella, o semplicemente il primo di cui ho memoria, è rappresentato dall’evento mitologico sul giudizio di Paride.


E tu guarda un po’, tale frivola gara ebbe come conseguenza una guerra.
Tutto ebbe inizio per colpa di Eris, dea della discordia la quale, non essendo stata invitata al banchetto che Zeus aveva disposto per il matrimonio di Peleo e Teti, scagliò sulla tavola imbandita una mela d’oro destinata alla più bella. Ben tre dee pretesero quello che è passato alla storia come pomo della discordia: Era, Atena e Afrodite.  Pronte a pagare qualsiasi prezzo e a mantenere qualsiasi genere di promessa prima, pronte ad inviare ogni sorta di punizione poi qualora non avessero vinto il titolo di più bella fra le dee.
Gli anni passano, il mito diventa storia e nascono i primi concorsi di bellezza come li conosciamo noi oggi. Ad anticipare il concorso di Miss Italia, che vede ufficialmente la vita per la prima volta nel 1946, è Miss America, nata nel 1921, che offre borse di studio come premio per la prima classificata.
Come era possibile che in un secolo così travagliato per la vita delle donne che ancora soffrivano della mancanza di diritti politici, sociali, morali e che vedevano la loro libertà ancora repressa qualcuno avesse pensato di crear loro dei concorsi di bellezza?
Con slogan che denunciano lo sfruttamento dell’immagine femminile voluta dai maschi, il 7 settembre del 1968 ad Atlantic City viene contestato il concorso annuale statunitense  da un gruppo di giovani attiviste conosciuto come New York Radical Women, fra cui Robin Morgan.


La marcia, che passerà alla storia con il nome di Miss America Protest, vide sfilare circa 400 donne che, a poco a poco, buttavano in un bidone detto Freedom Trash Can gli “strumenti di tortura femminile” come pentole, moci, stracci, bigodini, ciglia finte, tacchi alti, guaine, corsetti e reggiseni. Leggenda vuole, sebbene l’evento non sia mai accaduto poiché dichiarato pericoloso dalla polizia, che il contenuto di tali bidoni sia stato bruciato a causa di un articolo pubblicato in un giornale locale. Un gesto del genere designava un’analogia fra la protesta femminista e i manifestanti contro la guerra del Vietnam, iniziata ormai più di dieci anni prima, che bruciavano le loro carte da disegno. Il parallelismo piacque ad alcune attiviste tanto che nel decennio successivo si potrà parlare di mitizzazione del bra- burning, non solo nei cortei ma anche nei college. Questo non fu l’unico punto che accomuna la protesta femminista e quella del Vietnam. Nel corso dell’anno precedente, infatti, la vincitrice del titolo fu spedita con la troupe per la prima volta  in Vietnam, sancendo così la militarizzazione della gara. Il viaggio fu giustificato per lo scopo da raggiungere _ l’intrattenimento dei soldati ed il sostegno alle truppe_ ma il vero fine agli occhi delle femministe furono i  discorsi di incoraggiamento ai figli, ai padri, ai mariti e ai fidanzati per fare in modo che potessero morire e uccidere con uno spirito meno negativo.  Non vi è bisogno alcuno di spiegare, invece, come l’immagine della reginetta di bellezza americana sarebbe stato utilizzato, subito dopo la vittoria, come sponsor di prodotti della stessa natura di quelli buttati nei Freedom Trash Can.

Numerosi gli opuscoli scritti e distribuiti in cui venivano messi nero su bianco concetti che già da troppo tempo erano evidenti nella società, non soltanto statunitense. Il fatto che i maschi, fin dalla più giovane età, fossero spinti a compiere azioni, mentre le femmine fossero limitate a vivere nel mondo delle apparenze è lampante tanto quanto deplorevole: ogni ragazzo poteva aspirare a diventare Presidente degli Stati Uniti, ogni ragazza a vincere Miss America, come se le due cariche fossero di pari valore.
Le dimostranti  si erano schierati contro il concorso per le ragioni più disparate. Dai criteri di valutazione di standard impossibili da raggiungere per vincere il titolo, al fatto che nessuna fra le prime classificate fosse appartenente ad un’etnia diversa da quella caucasica, per non parlare del fatto che tale rassegna non faceva altro che acuire quella che la Morgan definì “ l’imbattibile combinazione Madonna- Puttana” che tanto aveva fruttato a riviste come Playboy riassumibile nell’idea di bellezza innocente e allo stesso tempo abbastanza seducente da poter soddisfare la loro lussuria.

Per ogni determinato problema i manifestanti trovarono una soluzione: dall’elezione di un concorso parallelo chiamato Miss Black America  da parte di coloro che manifestavano contro il razzismo del concorso, all’elezione di una pecora come Miss America da parte di chi si schierava deliberatamente contro il concetto all’origine della rassegna, l’idea base che spinge tale spettacolo ad esistere, paragonando l’evento ad un’asta di bestiame.

Perché affannarsi tanto, quindi, per essere belle? Perché premiare la bellezza esteriore, effimera e priva di sostanza, con borse di studio utili e desiderabili da chiunque, base sicura per una vita tranquilla?

Meno famosa delle sorelle, Anne Brontë ci tramanda la sua idea sulla bellezza, adesso sta ad ognuno di noi riflettere sulla sua importanza.
È stupido desiderare la bellezza. Le persone di buon senso non la desiderano mai per se stesse o si curano che vi sia negli altri. Se la mente sarà ben coltivata, e il cuore ben disposto, nessuno si interesserà mai dell’aspetto esteriore.




settembre 07, 2018 / by / 0 Comments

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